Salumi di qualità certificati di Cascina Lassi

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Cascina Lassi è un’azienda agricola del Parco Sud di Milano da sempre a fianco di Cortilia. Una realtà versatile e interessante seguita con fare propositivo e innovativo da due giovani e dinamici ragazzi: Mattia e Marco. E’ grazie a loro che Cascina Lassi, da classica azienda agricola specializzata su allevamento e ingrasso di suini, ha saputo cambiare volto e assumere le sembianze attuali e moderne della sostenibilità agricola.

Mattia e Marco sono oggi gli artefici di una produzione variegata, in cui alla cultura del maiale si associa quella del riso, del mais (da antiche varietà), della norcineria, del pollame…. in una parola, tanto cara al mondo agricolo di oggi, MULTIFUNZIONALITA‘.

Altro elemento distintivo di Cascina Lassi è la comodità. A fianco di Cortilia, Mattia e Marco sono riusciti a costruire una gamma interessante ad alto contenuto di servizio. La grande novità sono le nuove vaschette di salumi aziendali in atmosfera modificata. Una frontiera raggiunta che permette di poter valorizzare a pieno la qualità delle materie prima.

In più questi prodotti si sono arricchiti di due nuove e importanti specifiche:

Certificazione Parco Sud Milano
Si tratta di una certificazione di qualità ambientale, attribuita a tutte quelle aziende agricole che, nell’ambito della propria produzione, sono in grado di realizzare azioni a favore dell’ambiente, del territorio e del paesaggio.
Certificazione Eccellenze Italiane
Si tratta di una rete di eccellenze italiane Made in Italy, nata per difendere la provenienza e valorizzare i prodotti, esclusivamente realizzati in Italia, contro il rischio della contraffazione.
Per conoscere meglio i prodotti e per assaggiarli…

Monococco… un grano antichissimo!

Il monococco è il “seme della civiltà”, una straordinaria testimonianza della cultura agricola dell’Età del Bronzo. Con 10 mila anni di storia, questo cereale porta con sé un vissuto articolato fatto di abbandono, disinteresse e oggi – finalmente, dopo anni di lavoro e sperimentazioni – recupero e riaffermazione.

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Nonostante i numeri ancora esigui, qualche azienda ha iniziato a coltivare questa varietà.

Vediamone alcune pregi e virtù:

Anzitutto, l’interesse per questa coltura è legato essenzialmente alle sue peculiarità dietetiche nutrizionali, date dall’ottima composizione della sua farina. Il monococco contiene, infatti, pochissimo glutine, pur mantenendo un alto livello proteico (circa 17-19%, superiore rispetto ai frumenti tradizionali). Notevole anche il livello vitaminico, espresso in vitamina A, e di antiossidanti naturali, anche qui, decisamente sopra alla media dei “cugini” convenzionali.

Da non dimenticare, poi, anche le virtù sul fronte agronomico. A differenza delle varietà e degli ibridi selezionati e migliorati, il monococco garantisce anche una maggiore adattabilità, quindi una naturale predisposizione a pratiche agricole meno invasive e sostenibili.

L’azienda Podere Monticelli, nella figura di Cinzia Rocca, ha creduto fin da subito nel monococco, cereale che rientra nella composizione delle tante specialità gastronomiche, tra cui biscotti e crackers.

Per chi è appassionato di panificazione domestica, è possibile anche acquistare la farina, ottima per realizzare pani, focacce e pizze.

Straordinario, inoltre, il grano monococco perlato, una versione originale pronta da cuocere come un normale risotto o come base per un’insalata. Un prodotto eccezionale che permette di riscoprire, in chiave innovativa e curiosa, le proprietà nutrizionali e gastronomiche del cereale.

C’è pollo e pollo!

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Qualcuno avrà sicuramente in mente la nota pubblicità degli anni Settanta (rimasta immutata per oltre vent’anni), corredata da sonora canzoncina, del celebre galletto industriale che svolacchiava sereno e felice nelle nostre case e tra i nostri fornelli… Ebbene, abbandonate questo mito nostalgico di successo e concentratevi piuttosto su qualcosa di vero, autentico e di reale valore agricolo…

Pollo, pollame, galline e tutto ciò che si configura all’interno della macro famiglia dei “pennuti” meritano un po’ più di attenzione e sensibilità… Ecco di cosa tener conto nella scelta della migliore “carne bianca”.

Di primaria e di imprescindibile importanza, la modalità con cui si alleva e si ingrassa un pollo è la base da cui partire. Un allevamento virtuoso permette di garantire il fatidico e centrale tema del benessere animale, espressione di un consumo etico e sostenibile sempre più attuale e sentito. Allevare bene un pollo è, inoltre, garanzia di una qualità sensoriale maggiore, di un’esperienza gastronomica sincera e trasparente, nonché una risposta tangibile alla massa di polli industriali che inondano il mercato.

Nel concreto: un pollo virtuoso secondo Cortilia è il risultato di un allevamento non inferiore a 60-80 giorni, alimentato con cereali e integrazioni di prima qualità. Senza ricorrere a miti bucolici del pollo libero giorno e notte per corti e cascine (irrealistici se si vuole garantire costanza produttiva), un pollo di qualità deve avere il giusto spazio per muoversi, razzolare come è nell’istinto naturale dell’animale. Insomma, niente a che vedere con il drammatico scenario industriale.

In virtù di questo e a prova che un pollo diverso è possibile, ecco una proposta che giunge da un’azienda agricola del territorio milanese.

Si tratta del pollo della Cascina Lassi, un prodotto esclusivo, allevato libero nel pieno rispetto del benessere animale e alimentato con cereali di produzione propria da agricoltura BIO. Un pollo di oltre 90 giorni, della varietà “collo nudo” che ha la particolarità di sviluppare soprattutto il petto. Buono, raro, rivoluzionario… Provare per credere!

Il Km0… un concetto superato?!

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Evviva il cibo locale. Evviva le nostre campagne e le centinaia di agricoltori e artigiani che ogni giorno lavorano e valorizzano il nostro territorio. Evviva il cavolo appena raccolto e che in poche ore giunge nel nostro piatto.

Sono tante, forse infinite, le parole che accompagnano il cibo dei nostri giorni. Tra queste il fatidico e abusato concetto del Km0. Un termine tanto ricco di simbologia, quanto vuoto di contenuto e concretezza. Vediamo perché.

Km0 è un slogan che risale ad alcuni anni fa quando si è imposto nel vocabolario alimentare con ambizione e coraggio, con l’idea di diffondere una cultura alimentare e di approvvigionamento del cibo che ponesse attenzione all’origine e alla prossimità. Una nobile causa – così possiamo definirla – che è servita ad accendere dibattiti, interessi trasversali e un’acuta sensibilità del consumatore attorno alle produzioni locali e al territorio. In pochi anni il Km0 è entrato nella bocca di tutti – istituzioni, cittadini, contadini, produttori, artigiani, commercianti e persino nei supermercati -, sostenuto dalla sua stessa ambiguità e attrattiva illusoria.

Da semplice sirena, il Km0 è sprofondato senza controllo nel mondo del consumo e della fruizione del cibo, al punto da diventare un’etichetta, un sigillo distintivo (non regolato!) in fase di acquisto.

Sotto al cappello del Km0 si sono innalzati migliaia di iniziative di vendita diretta, sotto forma di mercati rionali, ambulantati, fiere e tanto altro. Tutti progetti di grande valore se si pensa all’impatto positivo per i bilanci delle aziende agricole locali, ma che non possono alimentare il proprio successo sulla base di abbagli commerciali, se non addirittura raggiri.

Per fare un esempio, un mercato che fonda la propria identità e attrattiva sul Km0, situato a Milano nella prima settimana di dicembre, dovrebbe esporre una gamma di prodotti orticoli limitata a cavoli, gli ultimi finocchi, zucche, porri, qualche insalatina invernale e poco altro. Come si giustifica, invece, la presenza dei meravigliosi carciofi, delle immancabili e destagionalizzate carote, cardi, sedano, ecc? Per non parlare della frutta: tralasciando gli agrumi che sono palesemente provenienti dal Sud, che ne è di mele, pere e kiwi?

Non varrebbe la pena andare oltre al mero slogan del Km0 e valorizzare le aziende agricole locali anche per quello che sono e per quello che offrono realmente? Anziché mascherare sotto all’ombra dell’ambiguità chilometrica un prodotto che non può (ed è bene che non lo sia) locale e di produzione aziendale, non è più efficace e strategico puntare sulla trasparenza? Ad esempio esponendo le origini chiare e precise di tutti i prodotti (oltre agli obblighi di legge: la normativa impone l’obbligo di dichiarare l’origine espressa come “paese di provenienza” es. Italia). Perché illudere e disinformare facendo credere che sia tutto locale quando non lo è?

Andare oltre al Km0 diventa un compito diffuso e necessario per fare chiarezza e diffondere una cultura alimentare che valorizzi l’autenticità dei nostri agricoltori, che premi le nostre campagne per quello che sono, a partire dal convivere con serenità nell’accettare i limiti strutturali, climatici, colturali e culturali che hanno. Scopriremo, ad esempio, che una mela nel Parco Sud di Milano (salvo in qualche raro e sporadico orto domestico) non ha senso cercarla, perché le peculiarità e le potenzialità agricole di questo straordinario territorio sono altre (riso, cereali, alcune orticole, allevamento). In compenso esiste – a non meno di 300 km dalla città – una comunità straordinaria di famiglie di agricoltori e cooperative che tra la Valtellina, il Trentino, l’Alto Adige porta avanti una cultura melicola che dà origine a mele decisamente migliori sotto ogni punto di vista.

Senza scadere nei soliti dibattiti retorici – ad esempio meglio un pomodoro Km0 coltivato artificialmente in idroponica in serre riscaldate a dicembre o un pomodoro siciliano biologico raccolto nel pieno della maturazione in una zona fortemente vocata? – impegniamoci a conoscere il nostro territorio e i nostri agricoltori.

Cultura contadina: la Ribollita toscana

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L’ingegno e la spontaneità contadina hanno permesso da sempre di trasformare le più semplici e comuni materie prime in artefatti di straordinario valore gastronomico. Ricchissimo, dal nord al sud del nostro Paese, il patrimonio di ricette e piatti della tradizione popolare che è oggi oggetto di attenzione e riqualificazione.

Una di queste è la ribollita, icona della cultura cucinaria toscana. Parliamo di una zuppa di verdure, alla cui base troviamo due ingredienti essenziali: cavolo nero e pane raffermo.

E’ un piatto cosiddetto di magro, che i contadini erano soliti preparare il venerdì in abbondanza, e il giorno dopo – dato che vigeva la regola del “zero sprechi” – veniva riscaldata, si faceva bollire di nuovo, con la sola aggiunta di un po’ di brodo e di un filo d’olio.

Oggi si può tranquillamente “fare e mangiare”, senza affidarsi per forza al rito della “ribollitura”. Vediamo come.

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  1. Preparate tutte le verdure di stagione. Noi abbiamo usato: cavolo nero, carote, zucca, patate, cipolla, porri, gli ultimi pomodori, rape, sedano, zucchine.
  2. A parte cuocete i fagioli cannellini o borlotti, eventualmente dopo averli lasciati in ammollo una notte.
  3. Procedete con il soffritto, quindi inserite tutte le verdure e i fagioli. Coprite con acqua, sale e pepe quanto basta.
  4. Cuocete per 2-3 ore, quindi lasciate intiepidire. Aggiungete un buon pane con lievito madre raffermo ridotto a pezzetti. Lasciate assorbire per qualche ora, quindi mescolate.
  5. La ribollita si può gustare subito oppure riscaldare il giorno dopo.
  6. Obbligatorio, prima di servirla o direttamente sul piatto, un’irrorata di olio extravergine d’oliva.
  7. Mangiate a volontà.

Per chi cerca la comodità, ma comunque l’eccellenza e il gusto autentico delle materie prime, approfittate della Ribollita di Cucina-To